Omaggio à un GENIE INCONNU
Ritratto d'infanzia di un bravissimo scrittore sardo
"
Nella foto sono quel riccioluto ingrugnato e, se non ricordo male, anche morto
di sonno. Tratti che avrebbero poi caratterizzato buona parte della mia
vita."
IL TRENO
di GIORGIO SECCI
Già, l’età. A sei anni occorreva andare a scuola. I ragazzi Melis erano
più grandicelli o coetanei ma appartenevano al ceto sociale che poteva anche
farne a meno. Noi no, il nostro albero genealogico non annoverava fra i suoi
rami personaggi illustri, ma vivaddio neanche operai o contadini dalle mani
callose che si fossero guadagnati da vivere col sudore della fronte in
fabbrica, zappando sotto il sole e la pioggia o scavando minerali nelle viscere
della terra. Da sempre, da quando cioè saper leggere e scrivere costituiva
titolo di preminenza, tutti impiegati a reddito fisso ma sicuro
nell’amministrazione statale, per il 90% ramo Poste e Telegrafo. Qualcuno,
quello zio ad esempio che quando da giovane studente capitavo a pranzo in casa
sua, fingendo di giocherellare con la forchetta infilzava il pezzo di salsiccia
posata sopra gli spaghetti del mio piatto e se la mangiava per scherzo ma per sempre lasciandomi sorpreso,
stupito, indignato ma impotente perché coi grandi
m’avevano insegnato a non discutere, fece una brillanta carriera. Nel prosieguo
mi sarei fatto furbo, come uno spadaccino provetto avrei parato la botta e
salvato la leccornia. E’ una storia che ancora mi addolora, se mi va la
racconterò un’altra volta. Zio Felicino, che abbiamo conosciuto spericolato
Pietro Micca nell’esplosione della mina del Col di Lana, fece eccezione,
andando ad aprire una clinica della scarpa, ciabattino si chiamava allora, a
Sinnai..
Ho cercato di traccheggiare girando intorno all’argomento solo per dire
che, geneticamente negati per i lavori manuali, la scuola era, per noi, un must. Ma lì attorno scuole non ce
n’erano; improponibile un viaggio a.r. Stazione-paese tramite servizio postale
rapido a traino bovino, restava il treno che in poco tempo raggiungeva la stazioncina di Gairo Littorio, piccolo
centro sorto di recente a monte del vecchio paese che una frana stava
trascinando senza scampo a valle.
Ma un bambino di sei anni non potevi metterlo a cuor leggero su un treno
la cui sicurezza era tutta da dimostrare e attendere fino a sera che tornasse a
casa: si decise di rimandare d’un anno l’avventura. A sette un ragazzo, già non
si parla più di bambino, sa “badare a se stesso”, è assennato, responsabile. La
prima elementare si può fare da privatista, che ci vuole?, in fondo a quei
tempi si cominciava, e si andava avanti per un anno, con le aste.
Avete mai provato ad aiutare un figlio, non tanto ad insegnargli cose da
scienziato, semplicemente a fare i compiti? E’ un’impresa in cui tanti si
cimentano ma chi dopo poco non getta la spugna è persona eccezionale. Non è
questione che, come usualmente si dice, ti manchi il metodo, perché allora capiterebbe anche con uno che figlio tuo non
è di cui ignori attitudini e capacità e da cui nulla di brillante ti aspetti:
trovi parole facili, ti sforzi, dici e ripeti all’infinito senza mai perdere la
pazienza.
Con un figlio è difficile anche forse stabilire un rapporto diverso, lui
un pò scettico si accinge quasi a metterti alla prova, con te ha troppa confidenza
e forse neanche ti prende troppo sul serio come insegnante. Tu cerchi di
ricordarti come si fa, ma è passato molto tempo, forse lo tratti inconsciamente
con sufficienza, ti senti superiore.
Alle prime difficoltà, alla prima mossa sbagliata, ricominci daccapo con
pazienza chiedendoti però il perché non abbia capito visto che sei stato cosi
chiaro. Se alla seconda insiste a non capire, un pò sbuffi e ripeti, ma con
tono pesante che tradisce impazienza. Lui non ascolta più con attenzione, ti sa
irascibile e quando ti arrabbi ti teme. Prima non te ne rendevi conto, adesso
sai d’avere un figlio mezzo deficiente “ma come, è tanto facile, te lo spiego
in tutte le maniere e tu niente!” Ti guarda e non ti capisce, anzi non ti
sente, il suo è uno sguardo perso, da ebete. Adesso affiora un pensiero
orribile, la sensazione che non sia soltanto mezzo, ma del tutto, deficiente. Prima di mollare però urli, strepiti, chiami
testimoni ai quali spieghi l’accaduto, che non possono capire nella sua
interezza perché la controparte tace avvilita, un figlio così negato non te lo saresti mai aspettato;
Questo in linea generale, nel caso specifico il lavoro non era poi tanto
complicato, non si trattava di trigonometria sferica o di calcolo
infinitesimale, c’era solo da
allineare sulle righe di un quaderno di prima elementare a banda larga una
serie di aste: in teoria la cosa più facile del mondo.
Ma gli attrezzi, porca miseria! Le matite nuove non avevano la punta si,
non l’avevano, occorreva farla col
temperalapis, mio padre avviava l’operazione io dovevo completarla. Gira gira
gira, uscivano i trucioli e dovevi fermarti al momento giusto perché un po’
prima il tratto veniva grosso, un po’ dopo la grafite si spezzava e dovevi
cominciare tutto daccapo. Al terzo tentativo, O.K. va bene. Impugnatura: “così,
fra l’indice e il medio col pollice che la tiene salda.” Mi fa vedere, in
qualche modo imito. Segna lui qualche asta, neanche una gran cosa, sul
quaderno. Provo io “non si vede, scrivi più forte.” Ce la metto tutta tac! la punta si spezza. Provo a rifare
la punta; dopo una, due si spezzano, al terzo tentativo tutto bene e torno a
scrivere: “non si legge, fa più forte ma non tanto forte.” “si” tac! Urla.
Ancora non avevo coperto con le aste, tutte storte, mezza riga che la
matita era ridotta a un mozzicone. Il peggio è che a mio padre non era rimasto,
di pazienza, neppure quel mozzicone “lascia perdere” disse sconsolato con un
sospiro “continuiamo domani.” Lui partito, con alle spalle l’ombra silenziosa
della mamma riuscii, con la cicca rimasta, a completare tre righe di aste.
“Allora non sono scemo del tutto.”
Dopo qualche giorno di lezione
e con un’unica matita su quattro rimasta, decisero di ricorrere ad una docente
esterna. Fui affidato ad Amelia, la figlia brillante di Ziu Melis, paziente,
competente, dolcissima che in poco tempo mi rimise
in carreggiata.
Alla fine del corso da privatista ero pronto e maturo per la seconda
elementare.
Fino a quel giorno il treno era stato un qualcosa che, sì, faceva parte
delle mie abitudini ma un affare di tutti, niente per me d’importante, arrivava
in frenata, partiva sbuffando senza mettesse conto gli si dedicasse più che uno
sguardo distratto, una minima variante alla monotonia della giornata semmai la
giornata fosse stata monotona. Considerata la sua utilità, soprattutto
l’importanza del ruolo ch’era destinato a giocare nella mia futura preparazione
tecnica ed umanistica, avrei fatto bene a dedicargli qualche momento di
attenzione supplementare. Il tempo gli avrebbe reso giustizia, avrei imparato a
conoscerlo, apprezzarlo, disprezzarlo, odiarlo ma a soffrire per la sua
mancanza; la bicicletta con cui talvolta dovetti rimpiazzarlo mi riuscì sempre,
specie su strada sterrata ed in salita, di molto più faticosa.
Per loro, compagni di scuola, parenti stretti e larghi, amici intimi e
non, per tutti insomma quelli che potevano farne a meno, sarebbe diventato il mio treno.
Non nel senso che sarei un giorno divenuto socio di maggioranza nell’emerito
C.d.A. della Società per le Ferrovie Complementari della Sardegna, non in quel
senso anche se, intendiamoci, non sarebbe stata una sistemazione da snobbare,
anzi!...
Per quanto quelle ferrovie fossero, ed a tutt’oggi credo siano, a) In Concessione,
b) A scartamento ridotto, c) Sovvenzionate, d) Complementari quei soci pare arrabattino niente male la loro lotta
per la sopravvivenza.
Narra la leggenda di un Presidente, nobile di origine vaticana, che in
occasione delle sue periodiche visite d’affari al feudo sardo si mostrasse
disponibile e democratico al punto da incoraggiare i dipendenti, riuniti
attorno alla sua imponente figura, ad esporre necessità e desideri dei quali
prendeva puntualmente nota. Scriveva tutto su una grossa scatola di prosperi di
legno, di quelli lunghi usati dai fumatori di pipa o sigaro, fitto fitto senza
farsi sfuggire una parola.
Pare che una di quelle scatole, coperta di geroglifici (stenografia?),
sia stata una volta trovata, vuota, in un cestino di rifiuti dagli addetti alle
pulizie degli uffici.
Il treno era mio nel senso “sbrigati che il tuo treno sta per partire, oppure “a che ora arriva il tuo treno?” o, ancora “se vuoi,
domani prendo il tuo treno e ne
parliamo.” Così per molti, tanti anni.
Quando allora dicevi treno tutti capivano di cosa stavi parlando: macchina - bagagliaio – vettura, carrozze una, massimo due se c’erano, oltre la terza classe, la prima e la seconda, a volte un carro merci. Il mio treno era così; oggi, se dicessi “alle otto prendo il mio Eurostar, il mio Pendolino, o, al limite il mio più modesto Intercity” passerei per presuntuoso o megalomane, per di più se vuoi rendere l’idea di quale di detti chilometrici convogli TAV intendi avvalerti, devi specificare. Ma tutto è più complicato e difficile, intanto devi “obliterare” perché se no il “titolo” non è valido e becchi multa, poi non puoi andare dove ti pare, solo a Firenze, Bologna o Milano; a Orte, Chiusi/Chianciano niente, dritto, figuriamoci Terranova Bracciolini ed io proprio là una volta dovevo andare! Ti chiudono dentro, vetri sigillati e se vuoi respirare devi accontentarti dell’aria condizionata, a volte troppo calda altre troppo fredda, uguale per tutti, obbligatoria come la prenotazione, che paghi anche se viaggi solo tu e quell’altro dieci posti più avanti. Ma arrivi fulmineamente, quando passa il carrello con le bibite e sei appena riuscito a leggere la terza pagina del tuo giornale devi trangugiare a strozzarti perché sei arrivato; o credi, in quanto dall’ultima carrozza all’uscita della Stazione c’è un percorso da mezza maratona, con i bagagli appresso per via che non si sa che fine abbiano fatto i facchini che una volta ti assillavano ma a pagarli ti portavano loro i bagagli e fortuna che oggi hanno le ruote (la valigie), insomma un viaggio così non te lo gusti. Di recente un nostalgico vecchio ferroviere ha incisivamente definito quei treni “delle lunghe valigie con le ruote.”
(oggi il trenino chiamato "verde" per i turisti)
Vuoi mettere il mio treno! Nel
tratto di una quindicina di chilometri Arzana-Gairo impiegava lo stesso tempo
che l’Eurostar Roma - Firenze ma respiravi la purissima aria di montagna
impregnata del profumo di mirti, cisti e fiori di acacie le cui chiome
sferzavano le carrozze, spesso lasciando cadere all’interno, dai finestrini
aperti, foglie e rametti. Il percorso si snodava fra boschi, strapiombi,
altissimi ponti e ti godevi il paesaggio al
ralenty, alla moviola distinguevi in lontananza ruscelli, cascatelle,
caprette al pascolo. A seconda della direzione del vento venivi però investito
dalla zaffata di fumo misto a vapore che vabbè un po’ dava fastidio ma
accentuava col suo peculiare puzzo, arivabbè, la percezione del movimento. Alla
fine del viaggio sapevi d’aver fatto un viaggio.
Non è per vantarmi se dico di non aver sofferto il contraccolpo del mio
primo giorno di scuola che coincideva col primo viaggio da solo in treno. Mio
padre aveva certamente preso le precauzioni del caso e programmato via
telegrafo la mia giornata accordandosi col suo collega di Gairo sig. Uras il
quale mi venne gentilmente incontro alla stazione, bella forza era lì per
dovere d’ufficio… e smessa la divisa, il classico berretto rosso, mi accompagnò
fino al basso fabbricato della scuola dove fui accolto con inatteso calore
dalla Maestra e da uno stuolo di alunni della “pluriclasse.”
Il viaggio era stato stimolante, sarebbe stato anche piacevole senza la
presenza ingombrante ed incombente del controllore
la cui qualifica era in realtà quella meno impegnativa di capotreno; il ruolo
di controllore lo espletava unicamente nei riguardi della mia piccola, modesta
e tranquilla persona capace peraltro di gestirsi, mi pareva, autonomamente
senza controlli di sorta.
Terminato il suo gravoso lavoro di bucatura di una diecina di biglietti
si mise a sedere al mio fianco occupando con la sua mole un posto e mezzo,
costringendomi a rattrappirmi nel mezzo posto restante, e tentò di socializzare
con una serie di domande banali che cercavo di eludere perché mi distraevano
dal paesaggio sempre vario ed estremamente attraente. Nome, età, quanti
fratelli e di questi quanti maschi e quante femmine, nati dove, elencare le
località, ch’erano tante, detti fratelli, e mio padre e mia madre. Erano
notizie di cui non gli poteva fregare di meno ma costituivano la premessa per
poi scaricarmi addosso sue informazioni che a me avrebbero interessato
infinitamente meno di quanto le mie interessassero a lui. Ma come fai a
farglielo capire senza “passare per maleducato!” E cosa vuoi rispondere ad uno
sconosciuto che ti mette al corrente dei fatti più intimi della sua famiglia?
Qualcosa devi pur dire. Io ad esempio dicevo “ah!” “oh!” “però!” “giusto,” “vero” “si” “no”
oppure annuivo per approvare anche quando avrei voluto alzare le spalle. Aveva
sei figli? “Però.” Quattro femmine e
due maschi? “Ah!” Lui sapeva come
educarli e quando lo meritano bisogna dargliele? “Giusto!” Era anche vero che a volte nell’educare si esagera? “Vero” “Bisogna essere capaci, quando è
il caso, di saper dire si o no?” “Si e no.”
Con poca fatica mi guadagnai la fama di bambino a) saggio, b) maturo per
la sua età, c) riflessivo, d) esperto, e) intelligente.
Ma ecco il mio giudizio sul primo capotreno della mia vita: a)
invadente, b) rompiballe, c) spione. La voce c) l’avrei constatata a mie spese
la sera in cui riferì a mio padre del mio tentativo di afferrare i rami delle
acacie che sfioravano il treno. Era vero, avevo rischiato d’essere risucchiato
ma data la confidente complicità che fin dal primo giorno si era creata fra noi
poteva anche coprirmi, evitandomi le inattese bacchettate di mia madre che
dalla finestra aperta sul piazzale aveva ascoltato il resoconto delle mie
malefatte.
Encomiabili sforzi stava in quel periodo compiendo il governo fascista
per assestare le prime picconate sulla roccia della spropositata montagna
dell’analfabetismo. Recenti statistiche in proposito fanno paura: a fine
ottocento la popolazione italiana era per circa il sessanta per cento composta
da gente che non avrebbe riconosciuto il proprio nome scritto su un pezzo di
carta, non parliamo di saper apporre la propria firma. Detta percentuale
riguardava la media nazionale dato che al centro della penisola il tasso
risultava del 78%. Calabria, Sicilia e Sardegna attingevano vette dell’85%.
Bisogna però considerare che in Sardegna entravano nella statistica città
capoluogo come Cagliari, Sassari e Nuoro dotate di frequentatissime scuole
primarie, secondarie ed università.
Cosa intendo dire? Semplicemente che i piccoli e piccolissimi centri
rurali dello sprofondo erano in svantaggio di almeno altri dieci punti, con ciò
conquistando senza sforzo il record del 95%. Ed è qui che l’odiato regime diede
il primo scossone istituendo le Scuole Rurali che affidate a coraggiose
maestrine portarono il primo raggio di luce nella secolare oscura ignoranza
indotta dalla feudale dominazione spagnola e da quella successiva del Regno
d’Italia.
Nel caso di Gairo i primi rudimenti della lingua italiana: aste, vocali,
consonanti, grammatica, qualche breve, timido, ingenuo pensierino e le quattro
operazioni intervennero a sgrossare la popolazione infantile a causa, o per
merito, della frana. Prima il paese dormiva i sonni tranquilli della sua
classica, primordiale, inconsapevole, feudale ignoranza. Qualche pretenzioso
benestante ch’esibiva nel taschino esterno della giacca della domenica una, a
volte due, penna stilografica di marca, non era da prendere sul serio, la sua
firma segno croce necessitava sempre dell’avallo di due testimoni acculturati,
di solito il prete ed un forestiero di passaggio.
La frana costituì, per la cultura dei nativi, la svolta, che non fu
repentina, ci mancherebbe! In Sardegna qualunque avvenimento anche il più
eclatante, e perché non la frana?, necessita dei suoi tempi tecnici di
attuazione. C’è chi dice che se la prendano comoda un po’ tutti, natura
compresa, ma è vero solo in parte. La frana che altrove sarebbe stata repentina
e avrebbe provocato sfracelli trascinando a valle fabbricati, strade, alberi e
uomini, a Gairo se la prese comoda, si mosse dolcemente per decennî senza originare
crepe nel terreno o lesioni nei muri delle case. Era molto estesa ed il piano
di scorrimento tanto profondo da spostare tutto insieme l’abitato. Senza che
inizialmente nessuno se ne rendesse conto, il villaggio prese lentamente a
scendere a valle di qualche centimetro l’anno con movimento, quindi,
percettibile solo attraverso strumenti di precisione. Quando però con gli anni
i centimetri diventarono metri qualcuno cominciò a sospettare che occorresse
fare qualcosa, ma cosa e chi?
Il Regime, affetto in quel tempo dalla sindrome delle nuove città, le già citate Littoria,
Sabaudia, Pomezia, Aprilia, Carbonia, Mussolinia e altre minori, prese il toro
per le corna. Senza stare troppo a pensarci su mise mano alla costruzione del
nuovo paese. Al di là della vallata, ad un quota più elevata passava la
ferrovia; dietro la stazione, su un vasto pianoro cosparso di graniti
affioranti sorse dal nulla, in pochi anni, la nuova Gairo (Littorio, manco a
dirlo), piccolo centro composto da una piazza su cui si affacciavano chiesa,
municipio, scuola, canonica e alloggio per le maestre. Dalla piazza si
dipartiva una serie di stradine su cui andava prendendo corpo il nucleo
abitato, in tutto poche centinaia di casette moderne e funzionali che avrebbero
dato alloggio stabile agli sfollati del vecchio borgo ballerino.
Prima a funzionare a pieno regime
fu la scuola, denominata rurale per via che la stragrande maggioranza degli
allievi era prole di contadini, ortolani e pastori, allettati dalla prospettiva
di migliorare per essi le condizioni di vita ma anche costretti dalle prime
disposizioni di legge che imponevano l’obbligo di frequenza.
L’unica aula che ospitava la pluriclasse, sufficientemente ampia,
illuminata da grandi vetrate, profumata di calce fresca, avrebbe consentito
serene, proficue lezioni tranquillamente studiate, programmate e razionalmente
illustrate da un’esperta maestra.
Ho usato il condizionale perché già dal primo giorno alcuni chiari
indizi lasciarono intuire che qualche imprevisto o imponderabile avrebbe potuto
turbare l’idilliaco svolgersi delle sessioni di studio. L’organizzazione
generale innanzitutto, il numero dei posti a sedere non coincideva con quello dei sederi; quest’ultimo era, anche se di poco, superiore al primo, da
qui la corsa disordinata ad accapparrarsi la poltrona, col seguito di aspri
litigi fra due aspiranti aggrappati allo stesso banco. Risolto il problema con
l’integrazione dei seggi mancanti sorse subito quello del posizionamento degli allievi delle diverse
classi. Logica avrebbe consigliato il raggruppamento, oggi si direbbe
accorpamento per classi, tutti assieme gli allievi della “prima”, cosi per la
“seconda” e per la “terza.”
Questa soluzione si scontrò con le proteste dei più piccoli a cui la
visuale della lavagna e della cattedra era preclusa da soggetti forse
“ripetenti,” di sicuro più corpulenti. Si optò per l’allineamento in ordine di
statura e cosi si mischiarono le carte della suddivisione nel senso che davanti
si trovarono i piccoli, dietro i grandi delle tre classi. In questo modo
aumentarono le difficoltà per la maestra che, giovane ed inesperta, cominciò ad
innervosirsi, andando in confusione quando si rese conto di dover, per seguire
individualmente gli alunni di una stessa classe, compiere un percorso per certi
versi analogo a quello del cavallo degli scacchi sulla scacchiera.
Conciliate finalmente le esigenze di tutti e di ognuno e adattatasi la
maestra a zigzagare fra i banchi per insegnare le aste ai primi, le vocali ai
secondi, il collegamento di vocali e consonanti ai terzi, si prospettò
l’esigenza della suddivisione per classi
sociali. Non ricordo, onestamente, d’essermi io lamentato dell’aspetto e
della condizione del mio compagno di banco; aveva si le mani sporche e un pò
puzzava di capra ma potevo lamentarmi proprio io che vivevo in simbiosi con
Stella e che detta capretta di famiglia abbracciavo ad ogni occasione? No, ma
il mio amico Leandro, sempre in ordine e pulitino, parlò con suo padre della
vicinanza di due compagni di banco sempre male in arnese che poveracci prima
della scuola davano una mano nell’ovile alla mungitura, in più posavano il loro
unto berretto a visiera vicino ai suoi immacolati quaderni. Il padre fece
valere la sua autorità di Capo (stazione), altro gioco dei quattro cantoni e
finalmente l’anno scolastico partì.
La maestra faceva del suo meglio per star dietro ad alfabetizzare ed
insegnare un minimo di disciplina ad una banda di piccoli straccioni che
trovavano difficile star fermi e seduti per più di dieci minuti e mal
sopportavano l’inusitata reclusione in un’aula angusta che li isolava dal loro
habitat privo di confini o restrizioni. Era per loro, in effetti, una
situazione del tutto estranea alle tradizioni rurali di famiglia. C’è da dire
che la scuola, pur nella sua assoluta novità, godeva dell’appoggio
incondizionato dei genitori analfabeti.
Per il momento non capivano e non condividevano i metodi educativi soft della giovane insegnante benché
questa non fosse del tutto aliena dall’impiego della bacchetta sulle dita dei
più refrattari alla cultura. Quando, ma capitava solo per i casi più difficili,
un genitore veniva convocato, alle lamentele della maestra seguivano scene di
violenza inaudita: una gragnuola di pugni, schiaffi, calci, imprecazioni, urla
e minacce si abbatteva sul malcapitato. Alla maestra venne reiteratamente
offerta in omaggio una zironia, il lettore attento ricorderà il famigerato
nerbo di bue, che però fra lo stupore delle famiglie respinse sempre con
sdegno.
Per quanto concerne l’ambito culturale non mi pare di ricordare di avere
mai scorto segni di sensibile progresso nei soggetti sottoposti a quel
trattamento choc; vedevi solo rassegnazione, un pizzico di paura e negli occhi
tumefatti di qualcuno un intenso sguardo di odio.
La maestra, per fortuna una ragazza
intelligente, dopo alcune di quelle esperienze educative capì che per la
soluzione di qualsiasi problema poteva contare solo su se stessa. Abbandonò
quasi del tutto il “righello” e prese ad avvicinare uno ad uno i ragazzi; a
qualcuno di loro sacrificò ore del suo pomeriggio, in aula ai bravi e meno
bravi non lesinava parole di incoraggiamento e qualche carezza.
In capo a qualche mese si trovò ad insegnare con calma, seppur a prezzo
di tutta la sua pazienza, ad una pluriclasse disciplinata che beveva a bocca
spalancata ogni sua parola. Difficile sapere quanti di quegli alunni abbiano
proseguito negli studi o abbandonato gli ovili e gli orti di Gairo ma una cosa
è certa, quella scuola significò per essi uno squarcio nella nebbia della
completa ignoranza, la possibilità attraverso la lettura d’intravedere un mondo
diverso e quel minimo di educazione indispensabile anche a chi per tutta la
vita è destinato a portare le capre al pascolo.
Alla fine l’ho buttata sull’idilliaco ed è giusto se si pensa che a meno
d’un mese dal loro inizio le lezioni si svolgevano senza il disordine, le
proteste, le lamentele e le contestazioni che ne avevano caratterizzato
l’esordio. Ma le fisiologiche problematiche tecniche proprie di una
pluriclasse, esaltate dalla irrazionale disposizione planimetrica degli alunni
nell’aula creavano gravi difficoltà sia alla didattica che all’apprendimento.
A mo’ di esempio esporrò il mio caso, disagevole ma niente affatto il
peggiore. Il mio banco aveva il sedile a
panchina, ci stavamo seduti in tre sufficientemente scomodi. Lo scrittoio
mobile, chiaramente programmato per due alunni, era strutturato in due parti io
nel mezzo che per estrarre dal ripiano sottostante i miei attrezzi ero
costretto a sollevare sia la ribaltina di destra che quella di sinistra stante
che le mie cose stavano un po’ di qua e un po’ di là.
Alla mia sinistra Paolino, alunno della prima, alle prese con problemi
di ambientamento neppure si accorgeva delle mie manovre che del resto, finché
le scritture riguardavano lunghi elenchi di lettere dell’alfabeto, erano
infrequenti. All’ala destra Leandro, che frequentando la terza lavorava già di
penna, s’infastidiva quando io dovendo, come da programma di disegno usare i
pastelli, sollevavo di continuo il “suo” scrittoio alla ricerca dei colori per
la giusta sfumatura dei miei cieli che non potevo mica lasciarli, per non
disturbare lui, azzurro mare, o verde bandiera le chiome dei miei alberi. E
forse è questo il motivo per cui non sarei mai diventato un Raffaello. Eravamo
amici (con Leandro, non con l’Urbinate) e spesso per non litigare rinunciavo al
nuage.
Dovevo tenermelo buono perché i miei rapporti con lui si estendevano
alla mia sfera privata stante che il cestinetto col mio pranzo era custodito da
sua madre e con lui trascorrevo le ore pomeridiane in attesa del treno che mi
riportasse a casa. Ero altresì consapevole della necessità di non distrarre,
col batti e ribatti della ribaltina, la sua mente concentrata nel duplice
tentativo di dare profondità ai suoi pensierini e mantenere operativa
l’attrezzatura necessaria ad inserirli, nero su bianco, nel foglio del
quaderno.
Dice, ma che ci vuole? Che ci vuole? per passare dalla matita alla
penna? Oggi niente, prendi la biro e scrivi, ma se la penna a sfera non ce
l’hai? Ecco, semplicemente non avevamo la penna a sfera. Dunque, fatemi fare
mente locale, l’arnese era costituito dal pennino in lamierino d’acciaio
flessibile, la punta divisa in due da una fessura; il pennino si innestava ad
una asticciola o “cannello.” S’immergeva il pennino nel calamaio contenente
l’inchiostro e via a scrivere, facile. E invece no! L’inchiostro lo forniva la
scuola dentro certi bicchieri inseriti in un foro del banco; veniva sostituito
quando non ce n’era più massimamente perché evaporato e le ultime volte il
pennino intinto in una densa poltiglia tirava su filacce, grumi e qualche mosca
annegata. Dovevi asportare i corpi estranei col nettapenne d’ordinanza non con un qualsiasi straccio altrimenti era
peggio, dovevi accertarti che la punta del pennino non avesse riportato danni.
Nella scatolina delle dotazioni c’era il ricambio ma se dall’ultimo cambio era
trascorso un certo tempo la ruggine aveva bloccato la coda del pennino nel cannello
e difficilmente riuscivi a compiere da solo l’operazione e non tutti erano
disponibili per aiutarti.
Il nuovo inchiostro riempiva fino all’orlo il calamaio, tu per abitudine
intingevi fino in fondo mandando giù anche un buon tratto del cannello ed estraevi
inchiostro per un’intera giornata di pensierini; nell’asciugare dovevi cercare
di evitare che qualche goccia finisse sul quaderno ché allora sì. L’inchiostro
era adesso fluido ed abbondante e se giravi pagina senza aver usato la carta
assorbente gli scritti si presentavano orlati di baffi neri e ricevevi una nota
di demerito perché il quaderno risultava disordinato;
in tutto quel fracasso le dita si annerivano, altra nota per scarsa pulizia personale.
Occorrevano concentrazione, attenzione, pazienza, spirito di sacrificio
e notevole autocontrollo per tenerti dentro le poche ma buone parolacce che,
come si dice in marina, in qualche modo aiutano a superare i momenti difficili.
Dovevi solo provare a farti scappare anche un innocente porca miseria! La vita scolastica irta di difficoltà pareva
studiata da una mente diabolica per forgiare e temprare fin dai primi anni
l’acerba psiche degli alunni allo scopo di attrezzarli e prepararli alle
avversità o perversità avvenire.
0 forse a quei tempi, duri per tutti, bisognava adeguarsi, la completa
assenza di qualsiasi comodità faceva sì che vivessimo ogni anche modesto
miglioramento come una conquista: gioia per una pagina di quaderno completata
senza macchie o tracce di impronte digitali, soddisfazione se ricevevi un bravo per le mani linde a prova di
verifica, entusiasmo quando la maestra ti elogiava per aver constatato il
perfetto stato di manutenzione e conservazione dei tuoi arnesi alla fine della
lezione. Era stata una faticaccia ma avevi superato una prova e sentivi dentro
di te un pizzico d’orgoglio.
Oggi, tempo delle cose facili, dei premi ottenuti per diritto senza
sforzo, dei genitori ruspa che sgombrano dagli ostacoli tutte le strade, che
non devi affaticare la memoria per ricordare che quattro per quattro fa sedici,
gli slalom fra i piccoli e grandi ostacoli della vita scolastica di quei tempi
suscitano ilarità e commiserazione, è naturale. Le risate stanno a zero quando
si discetta di giovani d’oggi stanchi della vita, di ragazzi depressi che
fumano spinelli per provare emozioni,
di mancanza di ideali e l’elenco sarebbe lungo ma basta così.