Le petit train vert en Sardaigne
Un voyage dans le temps
settefradis — 19 février 2008 — Riduzione del documentario RAI-DSE (1994)
Commento e ricordi di Giorgio Secci
nato e cresciuto tra i pionieri del famoso trenino
"E adesso mi trovo una Giusy qualsiasi che tenta di "farmi ricordare" quei luoghi "che conosci molto bene"...
Ma da lì sono sbucato, quella è stata la tana che mi ha visto cucciolo fare i primi passi per poi uscirne carponi e lentamente avventurarmi tra rotaie, traversine, materiale rotabile, fino a staccarmente, ma ce n'è voluto!, solo fisicamente. Venuto il momento, solo per caso ho cominciato a narrare "avventure" marinare ma dopo quel po po di successo, passando alla mia seconda opera letteraria la tastiera ha quasi inconsciamente preso a battere vicende legate al treno, alle strade ferrate e ai territori attraversati tra rocce, gallerie, ponti, strapiombi nel profumo di fiori di acacia ed effluvi di macchia mediterranea. Nell'Ogliastra lussureggaiante.
Certe osservazioni della mia mail precedente sul trenino verde sono, ci crederesti?, dovute a invidia per quei quattro gatti di turisti che godono dei paradisi (verdi, quelli si!) della mia fanciullezza e della mia adolescenza. Altri rilievi sono più seri e riguardano esperienze talvolta drammatiche del mio interminabile vissuto di pendolare. La sicurezza di quelle ferrovie era affidata a schiere di uomini che lavoravano senza sosta al controllo dei complessi elementi di quelle linee ferrate e operavano i pronti interventi per sostituire i materiali usurati.
Quando per via della guerra l'assiduo lavoro di manutenzione venne trascurato per anni, in un solo periodo di dodici mesi si verificarono sette (7) deragliamenti e uno scontro con sei morti. Insomma un treno vero (anche se verde) su una strada ferrata vera non è un giocattolo da salotto di quelli che si regalavano per Natale ai bambini. Si spera che questo aspetto venga considerato".
IL MIO TRENO (di Giorgio Secci)
Fino a quel giorno il treno era stato un qualcosa che, sì, faceva parte
delle mie abitudini ma un affare di tutti, niente per me d’importante, arrivava
in frenata, partiva sbuffando senza mettesse conto gli si dedicasse più che uno
sguardo distratto, una minima variante alla monotonia della giornata semmai la
giornata fosse stata monotona. Considerata la sua utilità, soprattutto
l’importanza del ruolo ch’era destinato a giocare nella mia futura preparazione
tecnica ed umanistica, avrei fatto bene a dedicargli qualche momento di
attenzione supplementare. Il tempo gli avrebbe reso giustizia, avrei imparato a
conoscerlo, apprezzarlo, disprezzarlo, odiarlo ma a soffrire per la sua
mancanza; la bicicletta con cui talvolta dovetti rimpiazzarlo mi riuscì sempre,
specie su strada sterrata e in salita, di molto più faticosa.
Per loro, compagni di scuola, parenti stretti e larghi, amici intimi e
non, per tutti insomma quelli che potevano farne a meno, sarebbe diventato il mio treno.
Non nel senso che sarei un giorno divenuto socio di maggioranza nell’emerito
C.d.A. della Società per le Ferrovie Complementari della Sardegna, non in quel
senso anche se, intendiamoci, non sarebbe stata una sistemazione da snobbare,
anzi!...
Per quanto quelle ferrovie fossero, ed a tutt’oggi credo siano, a) In Concessione,
b) A scartamento ridotto, c) Sovvenzionate, d) Complementari quei soci pare arrabattino niente male la loro lotta
per la sopravvivenza.
Narra la leggenda di un Presidente, nobile di origine vaticana, che in
occasione delle sue periodiche visite d’affari al feudo sardo si mostrasse
disponibile e democratico al punto da incoraggiare i dipendenti, riuniti
attorno alla sua imponente figura, ad esporre necessità e desideri di cui
prendeva puntualmente nota. Scriveva tutto su una grossa scatola di prosperi di
legno, di quelli lunghi usati dai fumatori di pipa o sigaro, fitto fitto senza
farsi sfuggire una parola.
Pare che una di quelle scatole, coperta di geroglifici (stenografia?),
sia stata una volta trovata, vuota, in un cestino di rifiuti dagli addetti alle
pulizie degli uffici.
Il treno era mio nel senso “sbrigati che il tuo treno sta per partire, oppure “a che ora arriva il tuo treno?” o, ancora “se vuoi,
domani prendo il tuo treno e ne
parliamo.” Così per molti, tanti anni.
Quando allora dicevi treno tutti capivano di cosa stavi parlando:
macchina - bagagliaio – vettura, carrozze una, massimo due se c’erano, oltre la
terza, la prima e la seconda classe, a volte un carro merci. Il mio treno era così; oggi, se
dicessi “alle otto prendo il mio Eurostar, il mio Pendolino, o, al limite il mio
più modesto Intercity” passerei per presuntuoso o megalomane, per di più se
vuoi rendere l’idea di quale di detti chilometrici convogli TAV intendi
avvalerti, devi specificare. Ma tutto è più complicato e difficile, intanto
devi “obliterare” perché se no il “titolo” non è valido e becchi multa, poi non
puoi andare dove ti pare, solo a Firenze, Bologna o Milano; a Orte,
Chiusi/Chianciano niente, dritto, figuriamoci Terranova Bracciolini e una volta
proprio lì dovevo andare! Ti chiudono dentro, vetri sigillati e se vuoi
respirare devi accontentarti dell’aria condizionata, a volte troppo calda altre
troppo fredda, uguale per tutti, obbligatoria come la prenotazione, che paghi
anche se in una carrozza ci sei solo tu e quell’altro dieci posti più avanti.
Ma arrivi fulmineamente, quando passa il carrello con le bibite e sei appena
riuscito a leggere la terza pagina del tuo giornale devi trangugiare a
strozzarti perché sei arrivato; o credi, in quanto dall’ultima carrozza
all’uscita della Stazione c’è un percorso da mezza maratona, con i bagagli
appresso per via che non si sa che fine abbiano fatto i facchini che una volta
ti assillavano ma a pagarli ti portavano loro i bagagli e fortuna che oggi
hanno le ruote (la valigie), insomma un viaggio così non te lo gusti. Di
recente un nostalgico vecchio ferroviere ha incisivamente definito quei treni
“delle lunghe valigie con le ruote.”
Vuoi mettere il mio treno! Nel
tratto di una quindicina di chilometri Arzana-Gairo impiegava lo stesso tempo
che l’Eurostar da Roma a Firenze ma respiravi la purissima aria di montagna
impregnata del profumo di mirto, cisto, corbezzolo. Le chiome delle acacie
sferzavano le carrozze, spesso lasciando cadere all’interno, dai finestrini
aperti, foglie, rametti e fiori. Il percorso si snodava fra boschi, strapiombi,
altissimi ponti e ti godevi il paesaggio al
ralenty, alla moviola distinguevi in lontananza ruscelli, cascatelle,
caprette al pascolo. A seconda della direzione del vento venivi però investito
dalla zaffata di fumo misto a vapore che (vabbè!) un po’ dava fastidio ma
accentuava col suo peculiare puzzo (arivabbè!) la percezione del movimento.
Alla fine del viaggio sapevi d’aver fatto un viaggio.